In questi giorni i problemi legati alla carenza di semiconduttori sono al centro dell’interesse della politica e dei media; se ne stanno occupando tutti i quotidiani e persino i telegiornali, non solo le testate specializzate.
Come è giusto che sia, viste le ricadute sulla produzione industriale, specialmente sulla produzione di auto, con le notizie sempre più frequenti di interruzioni alle linee di montaggio di questa o quell’altra azienda.
La carenza di semiconduttori ha messo a dura prova i carmaker in un periodo di grandi cambiamenti, con sempre più elettronica a bordo dei veicoli e con la transizione verso forme di mobilità più sostenibili. AlixPartners, una società di consulenza globale, ha stimato il mese scorso che l’industria automobilistica globale perderà circa 210 miliardi di dollari di vendite solo nel 2021.
La scarsità di semiconduttori ha provocato anche un aumento dei prezzi dei chip e un allungamento dei tempi di consegna che a settembre ha raggiunto il picco di 21,7 settimane.
Anche il Governo italiano si sta occupando della questione.
Lunedì il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha dichiarato nel suo intervento al Senato: “Una sfida decisiva per l’Europa è raggiungere l’autonomia tecnologica nei semiconduttori e nelle tecnologie quantistiche. L’Europa è passata dal 44% della capacità globale di semiconduttori nel 1990 ad appena il 9% nel 2021. Dipendiamo sempre di più dalle forniture extra-europee. Quando queste ritardano o si bloccano, come è accaduto in questi mesi di ripartenza economica, le aziende possono vedersi costrette a fermare o rallentare di molto la loro produzione.
L’Unione europea intende produrre il 20% dei semiconduttori mondiali entro il 2030. Per farlo, dobbiamo intervenire subito e con decisione. La Cina e gli Stati Uniti lo stanno già facendo, investendo decine di miliardi ciascuno in questo settore. L’Unione europea deve mettere insieme le capacità di ricerca, progettazione, sperimentazione e produzione di tutti i Paesi europei per creare, ad esempio, un ecosistema europeo di microchip all’avanguardia. Sosteniamo con convinzione la proposta della Commissione Ue di adottare uno European Chips Act per coordinare investimenti e produzione europei di microchip e circuiti integrati. Dobbiamo inoltre agire con la massima urgenza per rafforzare la cooperazione tra pubblico e privato e attrarre investimenti alla frontiera tecnologica”.
Dire che la UE deve produrre il 20% dei chip di tutto il mondo è una frase che ha poco senso: casomai la UE deve fare il possibile per produrre la maggior parte dei chip che servono alle proprie industrie, mentre per i semiconduttori utilizzati nelle attività all’avanguardia (aerospaziale, guida autonoma, militare) e nelle infrastrutture critiche (reti di comunicazione e di trasporto di energia) dovrebbe rivolgersi a fornitori di paesi amici, se non è in grado di produrli da sé.
La maggior parte dei chip di cui oggi ha bisogno l’industria europea viene realizzata con tecnologie consolidate, dai 14-28 nm in su.
Immaginare un percorso che conduca l’Europa (o gli Stati Uniti) ad avere una o più fonderie di semiconduttori paragonabili dal punto di vista tecnologico alla taiwanese TSMC o alla sud-coreana Samsung (ovvero in grado di produrre chip con nodo di processo dai 5 nm in giù) costerebbe oltre 1.000 miliardi di dollari. Questa cifra, risultato di uno studio approfondito del Boston Consulting Group (BCG), è ritenuta verosimile da tutti i principali attori di questo settore, aziende, istituti di ricerca e agenzie governative.
In un’ipotesi del genere, lo stesso studio prevede un aumento dei prezzi dei semiconduttori tra il 35% e il 65%.
In Europa non esistono fabbriche di smartphone che richiedono i processori di ultima generazione realizzati con nodi a 5 nm o inferiori, l’industria europea ha invece bisogno di MCU e controller prodotti con processi a 40, 65 o 90 nm, o ancora più datati.
Tutte tecnologie con le quali i produttori europei hanno dimestichezza e che utilizzano nei loro stabilimenti, anche se spesso risulta più conveniente far produrre i chip altrove, Taiwan, Corea o Cina, dove i volumi più elevati e un ecosistema più efficiente consentono di ottenere prezzi più vantaggiosi. Recentemente il CEO di Intel (che, per inciso, ha aumento gli ordini a TSMC) ha affermato che fare produrre i chip in Asia costa dal 20 al 40% in meno rispetto agli USA o all’Europa.
In questo contesto si sono intensificate le voci di un possibile coinvolgimento di Intel nella realizzazione di nuovi insediamenti produttivi, uno dei quali potrebbe sorgere in Italia.
Già quest’estate Pat Gelsinger, CEO di Intel, aveva compiuto un tour in Europa incontrando i vertici dell’Unione Europea e i capi di Governo di alcuni paesi tra cui quello italiano Mario Draghi; all’incontro di Roma avevano partecipato anche i ministri per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale Vittorio Colao e il ministro per lo sviluppo economico Giancarlo Giorgetti.
Gelsinger aveva manifestato l’intenzione di realizzare in Europa alcuni impianti per la produzione e il confezionamento di semiconduttori, per un investimento complessivo di 80-100 miliardi di dollari. Nella sostanza, nel suo giro esplorativo, Pat Gelsinger aveva sondato la disponibilità dei partener europei a partecipare agli investimenti, chiedendo anche quali altre condizioni di favore fossero disposti a concedere i paesi interessati, con particolare riferimento al costo del lavoro e al prezzo dell’energia. A tale proposito, bisogna considerare che gli impianti di produzione dei semiconduttori sono altamente energivori, e che la bolletta elettrica ha un forte peso sui costi di produzione. Fortunatamente, invece, per quanto riguarda il consumo di acqua e gli scarichi inquinanti, gli impianti più moderni riescono a mitigare quasi del tutto l’impatto ambientale.
Sin da allora si era parlato di due possibili siti produttivi italiani: quello dell’area Mirafiori di Torino e la città di Catania, dove sorge già uno stabilimento di STMicroelectronics. Tra l’altro, senza che si conoscesse alcun dettaglio del progetto, erano bastate le parole del ministro Giorgetti che aveva auspicato un insediamento in Piemonte per alimentare, nella migliore tradizione italiana, lo scontro tra esponenti politici che sostenevano l’ipotesi “nordista” contro quella “sudista”.
Come era logico aspettarsi in un momento di grave carenza di chip, le proposte di Gelsinger sono state accolte con favore dai leader europei che hanno fatto a gara a chi offriva di più.
In questi giorni, come riportano alcune indiscrezioni della Reuters di venerdì scorso, sembra che le trattative siano arrivate ad un punto cruciale, con la Germania che dovrebbe ospitare un mega stabilimento per la produzione di semiconduttori e l’Italia una fabbrica più piccola.
Nel nostro caso si tratterebbe di un impianto di back-end, ovvero dedicato al packaging dei semiconduttori, che creerebbe un migliaio di posti di lavoro diretti. Roma sarebbe pronta a finanziare parte dell’investimento e ad offrire condizioni favorevoli a Intel anche per quanto riguarda il costo del lavoro e quello dell’energia. Il valore dell’investimento è valutato in 4 miliardi di euro, non si sa quanto a carico di Intel e quanto a carico delle finanze pubbliche italiane. Vengono confermate le voci relativi ai due siti, Torino e Catania, ma la scelta non è stata ancora fatta.
Una delle fonti ha affermato che l’Italia ha buone probabilità di aggiudicarsi anche uno dei Centri di Ricerca che Intel intende aprire in Europa.
“Il Governo sta preparando un’offerta molto dettagliata con l’obiettivo di concludere un accordo entro la fine dell’anno”, ha detto una delle fonti a Reuters. “Le trattative con Intel sono in una fase avanzata. Non c’è ancora un accordo, ma se il governo lavora molto su questo, ha buone possibilità di portare l’impianto in Italia”.
Le indiscrezioni della Reuters sono sicuramente positive per l’Italia, non foss’altro che per il ritrovato interesse nei confronti delle capacità del nostro sistema industriale.
Bisogna tuttavia osservare che questa importante iniziativa è destinata a non avere alcun effetto sull’attuale carenza di semiconduttori.
Un impianto di questo tipo richiede infatti dai 3 ai 5 anni per essere costruito, si parla quindi del 2025/2026 come data di fine lavori. Con molta probabilità, prima di quella data, le decine di impianti attualmente in costruzione in tutto il mondo saranno diventati operativi ponendo fine all’attuale mancanza di semiconduttori. Solo in Europa nei prossimi 12 mesi diventeranno completamente operativi i nuovissimi impianti di Bosch a Dresda e di Infineon a Villach ed entro il 2023 entreranno in produzione il nuovo stabilimento R3 di STMicroelectronics ed i nuovi impianti di GlobalFoundries a Dresda.
Secondo SEMI, l’associazione tra le principali aziende del settore, entro quest’anno inizieranno (o sono già iniziati) i lavori di costruzione di 19 nuovi stabilimenti ad alto volume e almeno altri 10 sono previsti per il 2022. Questi numeri non includono i recenti annunci di TSMC, Micron e Intel. Dei nuovi impianti, 8 sono localizzati in Cina, 8 a Taiwan, cinque negli USA, 2 nella Corea del Sud e 3 in Europa.
Grazie a questa nuova capacità, la produzione complessiva a livello globale passerà dai 20,77 milioni di wafer 8”/equivalenti al mese del 2020 ai 22,68 milioni previsti per il 2021 con un incremento di oltre il 9%. Per il 2025 le previsioni indicano una produzione di 28,17 milioni di wafer con un incremento del 36%. Tenendo conto della migrazione verso nodi di processo sempre più piccoli, l’incremento del numero di chip effettivamente prodotti sarà sicuramente superiore a queste percentuali.
I nuovi impianti di Intel in Europa potrebbero dunque vedere la luce in un periodo di elevata produzione, durante il quale l’offerta supererà la domanda, in un andamento ciclico che da sempre caratterizza il mercato dei semiconduttori, come evidenzia il seguente grafico:
Un investimento, dunque, con un alto profilo di rischio, che avrà bisogno di un sostegno pubblico costante per poter competere con la concorrenza asiatica.
In ultima analisi la scelta è tutta politica, ed il costo per le casse pubbliche rappresenta la contropartita per una maggiore autonomia tecnologica dell’Europa in un settore sempre più strategico.