sabato, Novembre 23, 2024
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Nel giorno in cui Biden firma il Chips Act, crolla il mercato dei semiconduttori

Secondo molti osservatori è la riprova che il provvedimento è insufficiente e arriva troppo tardi, e che le logiche di mercato hanno un peso decisamente superiore agli interventi pubblici.

C’erano proprio tutti, ieri, gli amministratori delle principali società americane di semiconduttori e dei più grandi player mondiali del settore che operano negli Stati Uniti alla cerimonia della firma del Presidente Joe Biden sulla legge che dovrebbe rilanciare la produzione di semiconduttori negli USA. Il CHIPS and Science Act – questo il nome esatto della legge promulgata ieri – dovrebbe aiutare le aziende a riportare la produzione di chip sul suolo americano, riequilibrando un mercato che, per quanto riguarda l’aspetto manifatturiero, si è spostato sempre di più verso l’area asiatica, in particolare verso Taiwan, la Corea del Sud e la Cina. Negli ultimi 20 anni la percentuale di chip fabbricati negli Stati Uniti è passata dal 37% al 12% della produzione globale.

Con la nuova legge, i danni prodotti da rallentamenti o interruzioni della catena di approvvigionamento dovute a crisi globali (pandemie, conflitti, eventi naturali, ecc.) dovrebbero essere limitati e non avrebbero le conseguenze catastrofiche paventati da molti.

La carenza globale di chip che negli ultimi due anni ha caratterizzato alcuni settori industriali, in particolare quello automobilistico, con la mancata produzione di milioni di vetture, viene citata spesso come esempio dei danni che una crisi nel settore dei semiconduttori può provocare.

In realtà, la carenza di chip che ha caratterizzato il settore automobilistico non è stata causata da una interruzione della catena di fornitura dovuta al COVID-19 (come dimostrano le statistiche sul numero di circuiti integrati – in forte crescita – prodotti negli ultimi due anni), bensì dal boom dell’elettrificazione e dei dispositivi di assistenza alla guida. Negli ultimi 2-3 anni la richiesta di chip per impiego automobilistico è raddoppiata e, nonostante lo sfruttamento degli impianti arrivato in molti casi al 100% e i nuovi stabilimenti entrati in funzione, i produttori di semiconduttori non sono riusciti a soddisfare la domanda. D’altra parte bisogna considerare che per la costruzione di una nuova fabbrica sono necessari dai 2 ai 5 anni.



Negli ultimi due anni la produzione di chip è aumentata complessivamente del 20-50% a seconda del settore, con una ricaduta positiva sui fatturati e, soprattutto, sugli utili delle aziende, a causa di un incremento dei margini dovuti al maggiore utilizzo della capacità produttiva.

Nello stesso periodo la richiesta di chip da parte del settore automobilistico è quasi raddoppiata, in parte per fare fronte alle necessità produttive e in parte per tentare di riportare le scorte di magazzino ad un livello di sicurezza.

Se è evidente il ritardo col quale arrivano i sussidi del CHIPS and Science Act, anche l’entità dei fondi messi a disposizione per la costruzione di nuovi impianti appare insufficiente, 39 miliardi per i prossimi cinque anni quando, ad esempio, TSMC la prima foundry al mondo, investirà 100 miliardi di dollari nei prossimi tre anni per la costruzione di nuovi impianti. Decisamente più interessanti appaiono gli stanziamenti a sostegno della ricerca scientifica: un aiuto fondamentale a salvaguardia dell’ecosistema di ricerca e sviluppo, delle reti delle università e dei centri di ricerca: il vero capitale dell’industria americana. Non a caso, il dominio degli Stati Uniti sul mercato dei semiconduttori è cresciuto sino al 54% del mercato globale, dal 38% degli anni ’90 del secolo scorso:

A rovinare la festa ci hanno pensato i mercati, con l’indice dei semiconduttori di Philadelphia sceso del 4,6% in un solo giorno, uno dei peggiori cali della storia. Che è successo? Il (quasi) blocco navale cinese di Taiwan, motivo per il quale la nuova legge avrebbe senso? No, durante le manovre militari le quotazioni non si sono mosse.

Sono invece crollate dopo che da più parti sono arrivati dei segnali inequivocabili che il mercato, notoriamente ciclico dei semiconduttori, stava invertendo la tendenza, imboccando la strada di una forte recessione. Determinanti, dopo i deludenti risultati di NVIDIA e Intel, le parole dell’amministratore delegato di Micron Sanjay Mehrotra che vede un ulteriore indebolimento della domanda a causa degli adeguamenti che si stanno allargando dal mercato consumer ad altri settori, inclusi data center, industriale e automobilistico. Una dichiarazione giunta insieme all’annuncio di Micron che la società investirà 40 miliardi di dollari (parte dei quali provenienti dai fondi del Chips Act) per aumentare la produzione sul suolo nazionale, portando la quota delle memorie prodotte in USA al 10% della produzione globale dall’attuale 2%.

Non sappiamo se Micron intende spostare parte delle sue produzioni asiatiche negli Stati Uniti o intende realizzare nuovi fab sul suolo americano. Vien da chiedersi, infatti, quanli aziende, nella prospettiva di un forte calo delle vendite, aumenteranno la propria capacità produttiva costruendo nuovi impianti nei prossimi anni.