Alla luce delle nuove strategie nazionali e comunitarie, la proprietà cinese del secondo produttore italiano di semiconduttori potrebbe rappresentare un freno allo sviluppo dell’azienda marsicana.
In un periodo in cui la carenza globale di semiconduttori si fa sempre più acuta, minacciando la ripresa economica mondiale dopo il periodo buio della pandemia, c’è un’azienda italiana che produce chip ma che non riesce a sfruttare appieno le proprie capacità produttive.
E che, cosa ancora più strana, non sembra interessata ai fondi italiani ed europei disponibili per la ripartenza delle attività produttive.
Lo denunciano i sindacati che più volte negli ultimi mesi hanno espresso le loro preoccupazioni per la situazione aziendale: “Quello della microelettronica è un settore strategico, per il quale è disponibile una quantità ingente di finanziamenti pubblici ma la proprietà non è intenzionata a farne uso, per quale motivo?” si legge in una nota della UILM.
L’azienda in questione è LFoundry, l’unica realtà italiana, insieme a STMicroelectronics, che produce semiconduttori.
La tormentata storia dell’azienda
Con sede ad Avezzano, in provincia dell’Aquila, l’azienda ha una lunga storia ed è attiva da oltre trent’anni.
Nata nel 1989 su iniziativa di Texas Instruments, l’azienda avvia la produzione di memorie dinamiche per computer (DRAM), diventando uno dei più importanti siti europei per la fabbricazione di questi chip, grazie anche agli ingenti finanziamenti pubblici, quasi mille miliardi di lire, fra finanziamento per costruire la fabbrica e quello al mai nato “Consorzio Eagle” che avrebbe dovuto sfornare 40 brevetti industriali all’anno con 400 tecnici e ingegneri.
Nel 1998 lo stabilimento viene rilevato dalla multinazionale delle memorie Micron Technology che avvia anche la produzione di sensori d’immagine CMOS (CIS) e in 15 anni investe circa 1,3 miliardi di dollari per espandere e ammodernare il sito.
Nel 2013 Micron mette in vendita lo stabilimento, considerato non più competitivo con gli insediamenti asiatici.
Dopo lunghe trattative, l’azienda viene ceduta ad una join venture composta da una piccola società tedesca (LFoundry) e da Marsica Innovation, creata ad hoc dal management aziendale italiano.
Dopo la dismissione delle memorie, la produzione si focalizza sui sensori d’immagine e su pochi altri dispositivi.
Arrivano i cinesi
Nel 2016 entra nell’azionariato SMIC, il più importante produttore cinese di semiconduttori che, dopo un tentativo di avviare la produzione di dispositivi logici, nel 2019 getta la spugna e insieme agli altri proprietari vende il 100% del pacchetto azionario alla cinese SPARC (Sensor Power Analog Radiofrequency Company).
Nel discorso di insediamento della nuova azienda, il suo rappresentante, Nabeel Gareeb (oggi presidente di LFoundry), afferma che la principale motivazione per cui è avvenuta l’acquisizione è l’altissimo livello di professionalità ed esperienza dei circa 1500 dipendenti.
A settembre 2019 l’Amministratore Delegato di LFoundry, Marcello D’Antiochia, comunica l’intenzione della proprietà di riorganizzare l’azienda suddividendola in 4 blocchi funzionali: BU sensor, BU power, FAB, R&D, facenti capo a società diverse.
Una strategia che preoccupa maestranze e sindacati, che a due anni di distanza vedono confermati i propri timori, evidenziati da una emorragia di figure professionali altamente specializzate e dall’assenza di nuove significative commesse.
La dipendenza dalle commese onsemi
Attualmente i dipendenti sono scesi a 1350 unità e la maggior parte delle entrate di LFoundry deriva dal contratto con ON Semiconductor (che scadrà nel 2024) per la fornitura di sensori d’immagine, un settore in cui l’azienda è all’avanguardia grazie all’esperienza maturata in tutti questi anni. Per quanto riguarda i prodotti power, che dovrebbero rappresentare il futuro dello stabilimento, questi dispositivi non saranno sicuramente in grado di garantire la sopravvivenza dell’azienda in assenza di commesse di sensori CIS. E i 18 milioni di investimenti annunciati dalla proprietà sembrano ben poca cosa, almeno questa è l’opinione dei sindacati che paventano un disimpegno della proprietà cinese dopo aver svuotato il sito di conoscenze, clienti e processi.
Attualmente LFoundry fattura oltre 200 milioni di dollari all’anno ed ha una capacità di 40 mila wafer da 8” al mese, prodotti con nodi di processo da 65 nm a 150 nm.
Una situazione davvero paradossale quella dell’azienda marsicana, che sconta la miopia di una politica industriale nazionale ed europea che la pandemia e la carenza di chip hanno drammaticamente messo in evidenza, facendo riscoprire l’importanza strategica del settore dei semiconduttori per l’Italia e per l’Europa.
Se, dopo anni di inerzia, il Governo Draghi ha utilizzato lo strumento della Golden Power per evitare che una piccolissima azienda lombarda, la Lpe di Baranzate, venisse acquisita da una società cinese, come dovrebbe agire la politica nel caso di LFoundry?
Le risorse negate
Le risorse previste dal Piano nazionale di resistenza e resilienza (Pnrr) per la microelettronica sono ingenti, circa 750 milioni di euro. Anche una piccola parte di questa cifra potrebbe cambiare le sorti dell’azienda marsicana. Certo, non con l’attuale proprietà cinese. Sarebbe un controsenso rispetto alle nuove indicazioni strategiche in tema di protezione del know-how nazionale. Sarebbe come finanziare l’acquisto di armi per il nostro nemico.
D’altra parte in passato l’integrazione dell’azienda di Avezzano con il suo principale cliente statunitense era stata vanificata dalla richiesta di ON Semiconductor di 300 esuberi.
A questo punto, una soluzione in ambito nazionale o europeo resta la più auspicabile. C’è da osservare che LFoundry opera in un settore, quello dei sensori d’immagine per automotive, in forte espansione, mentre la capacità di fonderia potrebbe essere utile per mitigare l’attuare carenza di semiconduttori.
Sicuramente la presenza pubblica nell’azionariato della più grande azienda italiana di semiconduttori potrebbe favorire questa soluzione.