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Si inasprisce la guerra sui chip tra Stati Uniti e Cina. Riusciranno gli USA a bloccare l’ascesa dell’industria cinese dei semiconduttori?

Si inasprisce il confronto sui chip tra USA e Cina

Gli USA inaspriscono ulteriormente le sanzioni sulla vendita di chip alla Cina e aggiungono altre quattro aziende cinesi alla Entity List. Secondo le nuove norme, i controlli sulle esportazioni di chip avanzati si applicheranno anche ai desktop che li contengono. 

Il 29 marzo, l’amministrazione statunitense ha annunciato senza preavviso che avrebbe rivisto ancora una volta le norme che impediscono alla Cina di ottenere i chip americani più avanzati per l’intelligenza artificiale nonché altri macchinari per la produzione di semiconduttori.

La nuova revisione è entrata in vigore rapidamente, il 4 aprile, meno di una settimana dopo la sua pubblicazione. Secondo le nuove norme, i controlli sulle esportazioni si applicano anche ai computer portatili che contengono i chip sottoposti a restrizioni.

Lo stesso giorno, il Dipartimento al Commercio degli Stati Uniti ha inserito nella cosiddetta Enitity List altre quattro aziende cinesi: Linkzol (Beijing) Technology, Xi’an Like Innovative Information Technology, Beijing Anwise Technology e SITONHOLY (Tianjin).

Ricordiamo che nei confronti delle società inserite nella Entity List si applicano rigorosi requisiti di licenza all’esportazione che ne limita fortemente l’accesso a tecnologie, merci e software che utilizzano brevetti statunitensi.

La decisione dell’amministrazione americana alza ulteriormente l’asticella della guerra tecnologica tra gli Stati Uniti e la Cina, bloccando di fatto le attività di quelle aziende cinesi che stanno dimostrando la capacità di poter sfidare l’egemonia occidentale nel campo delle memorie, dell’intelligenza artificiale e delle attrezzature per la produzione di chip.

Allo stesso tempo, gli Stati Uniti hanno stretto una serie di accordi con i produttori più avanzati di microchip per aumentare la capacità manifatturiera nazionale, aumentando il numero di impianti, gli investimenti e la qualità dei semiconduttori che verranno prodotti.

Dopo gli accordi con Intel e TSMC, alcuni giorni fa anche Samsung ha accettato di aumentare i propri investimenti in Texas, anche questi col sostegno dei contributi pubblici del CHIPS and Science Act.

Appare molto probabile, dunque, che anche sul territorio degli Stati Uniti verranno prodotti i chip più avanzati, quelli a 3 nm che attualmente vengono prodotto solamente a Taiwan e nella Corea del Sud e, in prospettiva, anche quelli a 2 e 1,4 nanometri.

Sembra dunque che gli Stati Uniti, con l’aiuto dei loro alleati, in particolare dell’Olanda e del Giappone, siano riusciti nell’intento di bloccare le ambizioni cinesi nel settore dei semiconduttori avanzati e a garantirsi quella capacità produttiva che avevano perso negli ultimi decenni.

Da parte sua, vista l’impossibilità di accedere nel medio periodo alle tecnologie sub 7 nm, la Cina sta puntando quasi tutto sui semiconduttori legacy con massicci investimenti.

Questa situazione, che apparentemente sembra evolversi come sperato dall’amministrazione Biden, include una serie di sfide e pericoli che dovranno essere affrontati con attenzione per evitare che possano produrre effetti indesiderati e che possano, al limite, ritorcersi contro chi ha promosso queste sanzioni.

Chi pagherà i maggiori costi di produzione delle fabbriche USA di TSMC e Samsung?

I contributi stanziati a favore della costruzione dei nuovi impianti di Intel, TSMC e Samsung sul suolo americano da parte del governo degli Stati Uniti dovrebbero compensare i maggiori costi e i tempi più lunghi di costruzione. In realtà, già in questa fase, i costi dei nuovi impianti di TSMC e Samsung sono lievitati rispetto alle previsioni, così come i tempi di costruzione dei fabbricati e delle opere infrastrutturali. C’è poi il problema della mancanza di personale qualificato che si farà ancora più grave con l’aggiunta della nuova capacità produttiva annunciata in questi giorni.

Tuttavia, il vero problema riguarda i maggiori costi di produzione a regime, ovvero una volta che tutti questi impianti diventeranno operativi.

È opinione comune, infatti, che i costi di produzione saranno molto più alti rispetto a quelli delle equivalenti fabbriche che TSMC e Samsung gestiscono a Taiwan, nella Corea e in Cina. Morris Chang, il fondatore di TSMC, valuta in circa il 40% i maggiori costi di produzione. Chi pagherà questi costi? Non certo i clienti, fin quando avranno la possibilità di accedere ad altre fabbriche più convenienti; men che meno le nuove fonderie che non potranno abbassare i prezzi e produrre sottocosto.

Ancora una volta, dunque, dovrà essere il governo americano a garantire un sostegno finanziario alla produzione nazionale dei chip più performanti, e questa volta in maniera continuativa e non più una tantum come nel caso del CHIPS Act. La domanda che in molti si pongono è quanto questo nuovo impegno finanziario USA può essere garantito stante un deficit di bilancio che sta viaggiando su valori del 6-7% annui e con un debito pubblico che ha raggiunto l’anno scorso il 120% del PIL.

Ripercussioni sullo scudo di silicio di Taiwan  

In un famoso discorso, Morris Chang, l’ultranovantenne fondatore di TSMC, ha paragonato l’azienda da lui fondata ad una enorme scudo in grado di proteggere la propria nazione, ovvero l’isola di Taiwan, che si trova al centro dell’area geografica dove si è spostato il confronto tra le superpotenze, quella nascente, la Cina, e quella che ha dominato il mondo negli ultimi decenni, ovvero gli Stati Uniti.

Fin dalla sua nascita nel 1949, il governo di Pechino reclama la sovranità sull’isola di Taiwan (o Formosa come la battezzarono i portoghesi), considerata una provincia ribelle, e separata dalla terraferma da una striscia di mare larga circa 150 chilometri.

Oltre all’importanza strategica dell’isola (che fa parte di quella che viene definita la “prima catena di isole”, una sorta di enorme barriera corallina che circonda la Cina e che ne impedisce una facile proiezione militare verso l’Oceano Pacifico), il fatto che Taiwan rivesta un ruolo cruciale nella produzione di semiconduttori mondiale, specie di quelli più avanzati, rappresenta un secondo motivo per cui difficilmente un’azione di forza da parte della Cina non provocherebbe l’intervento militare degli Stati Uniti e dei suoi alleati nell’area.

Uno “scudo di silicio”, come viene definito, che è fondamentale per l’indipendenza e la sicurezza di Taiwan.

Lo spostamento delle capacità produttive più avanzate negli Stati Uniti (ma anche in Giappone e in Europa) potrebbe fare venire meno l’importanza di questo ombrello protettivo, spingendo la Cina a tentare un’azione militare nella convinzione che l’isola di Taiwan non rappresenti più per gli Stati Uniti un asset da difendere militarmente.

Nonostante le rassicurazioni del governo di Taiwan e di TSMC, questo timore sta crescendo e non potrà che aumentare dopo l’apertura dei nuovi impianti sul suolo americano.

Lo sforzo tecnologico e produttivo cinese

In risposta alle restrizioni occidentali sulle esportazioni di tecnologia, la Cina ha mobilitato ingenti risorse per creare un ecosistema quanto più possibile indipendente dalla tecnologia occidentale da cui dipende fortemente, in particolare nel software di progettazione dei semiconduttori e nelle apparecchiature per la produzione di chip.

È indubbio che le sanzioni occidentali abbiamo colpito duramente aziende come Huawei, SMIC, Yangtze Memory, Cambricom e CXMT la cui produzione di chip avanzati è fortemente dipendente dalle apparecchiature occidentali e giapponesi, in particolare dai sistemi fotolitografici.

Per realizzare con una buona resa chip con nodo di processo inferiore ai 7 nm è infatti necessario adottare la tecnologia EUV alla quale, da sempre, le aziende cinesi non hanno accesso.

Con i sistemi DUV più avanzati (di cui le aziende cinesi hanno fatto incetta negli ultimi due anni), unitamente alla tecnologia del multi-patterning, è possibile produrre chip a 7 e persino a 5 nm, ma con rese che non sono economicamente compatibili con la produzione in volumi.

Per raggiungere l’autosufficienza nel settore dei semiconduttori (nel 2022 è stato varato il piano “Made in China 2025” che ha come obiettivo quello di soddisfare il 70% della domanda cinese con chip di produzione locale entro il 2025) la strategia cinese si sta focalizzando su quattro linee guida:

  1. Fortissimo aumento della capacità produttiva di chip maturi, comprese le memorie
  2. Sostegno ai produttori nazionali di impianti e macchinari per la produzione di semiconduttori
  3. Ricerca di soluzioni alternative alla tecnologia EUV e al software di sviluppo dei semiconduttori
  4. Boicottaggio di tutti i prodotti hardware e software occidentali nella pubblica amministrazione cinese per poi estendere i divieti anche al settore privato

La Cina rappresenta il più grande mercato finale per l’industria globale dei semiconduttori. Per soddisfare le esigenze delle sue fabbriche che producono per tutto il mondo smartphone, PC, automobili, elettronica di consumo, eccetera, la Cina ha importato nel 2023, secondo Gartner, 349,4 miliardi di dollari di chip su un mercato mondiale complessivo di 533 miliardi di dollari.

Il calo del 15,4% delle importazioni cinesi rispetto al 2022 riflette sicuramente il calo del mercato globale che è sceso complessivamente del 11,1% (le vendite nel 2022 hanno raggiunto la cifra record di 599 miliardi di dollari) e, forse, dipende in parte anche dalle restrizioni introdotte nel 2023 sui chip più avanzati per AI dagli Stati Uniti.

Queste cifre fanno comprendere quanto sia necessario ed impellente per la Cina aumentare la propria capacità produttiva in questo settore.

Principale protagonista dello sforzo cinese di raggiungere l’autosufficienza nei semiconduttori è il colosso Huawei Technologies che, col sostegno del governo di Pechino, ha la forza finanziaria e tecnologica per guidare questa battaglia.

Huawei, insieme alla controllata HiSilicon Technologies, che si occupa della progettazione di chip, è stata una delle prime vittime delle sanzioni americane, tanto da dover rinunciare nel 2020 allo sviluppo del suo chipset di punta, il Kirin (fabbricato dalla taiwanese TSMC).

Dopo un periodo di disorientamento, negli ultimi due anni Huawei ha reagito con grande forza alle sanzioni americane tanto da riuscire, in collaborazione con la foundry cinese SMIC, a riprendere la produzione del chipset Kirin con nodo di processo a 7 nm utilizzando i sistemi litografici DUV di ASML.

Nel 2023 Huawei ha conseguito un utile netto di 87 miliardi di yuan (12 miliardi di dollari), il più alto degli ultimi cinque anni. I numeri forniscono un forte segnale del fatto che la società è stata in grado di reagire alle dure sanzioni di Washington.

Le dichiarazioni di un ingegnere di Huawei, raccolte da Nikkei Asia, fanno capire quale sia l’impegno profuso in questa battaglia: “Lavorare con loro (Huawei) è brutale. Non è più 996, ovvero lavorare dalle 9:00 alle 21:00, sei giorni alla settimana… ora è letteralmente 007, da mezzanotte a mezzanotte, sette giorni alla settimana. Nessun giorno libero”.

I risultati raggiunti da Huawei in vari campi sono davvero incredibili, specie tenendo conto delle sanzioni americane che hanno colpito la società: la piattaforma di Huawei per il trasferimento di denaro digitale è la prima al mondo, superando persino Visa, e il sistema operativo Harmony OS ha raggiunto ormai il miliardo di installazioni.



a) I nuovi impianti produttivi

La capacità produttiva cinese di chip maturi è destinata a crescere del 60% in 3 anni e a raddoppiare in 5 anni.

Secondo le statistiche di TrendForce, escludendo 7 fabbriche di wafer “dormienti”, in Cina sono attive attualmente 44 fabbriche di wafer, di cui 25 sono strutture da 12 pollici, 4 da 6 pollici e 15 fabbriche/linee di wafer da 8 pollici. Inoltre, ci sono 22 fabbriche di wafer in costruzione, di cui 15 da 12 pollici e 8 da 8 pollici.

Aziende come SMIC (in stretta collaborazione con Huawei), Nexchip, CXMT e Silan prevedono di iniziare la costruzione entro la fine del 2024 di altre 10 fabbriche di wafer, tra cui 9 fabbriche di wafer da 12 pollici e 1 fabbrica di wafer da 8 pollici, portando il totale a 32 fabbriche di wafer su larga scala, tutte focalizzate su processi maturi.

A conferma dell’enorme sforzo produttivo cinese, una ricerca degli analisti di Barclays indica che la capacità produttiva di chip della Cina dovrebbe più che raddoppiare entro i prossimi 5÷7 anni, superando significativamente le aspettative del mercato. L’analisi di 48 produttori di chip con impianti di produzione in Cina suggerisce che il 60% della capacità aggiuntiva prevista potrebbe essere operativa entro i prossimi 3 anni.

Colossali sono anche i piani dei due campioni cinesi delle memorie, Yangtze Memory Technologies Corp (YMTC), focalizzata sulle memorie 3D NAND, e ChangXin Memory Technologies (CXMT) specializzata nella produzione di DRAM. Quest’ultima, che attualmente ha una capacità produttiva di 120.000 wafer al mese, vuole arrivare nel medio periodo a produrre qualcosa come 300.000 wpm. Per quanto riguarda YMTC, il governo di Pechino ha recentemente investito nell’azienda 1,9 miliardi di dollari.

Per sostenere questo eccezionale sforzo produttivo, le aziende cinesi hanno fatto incetta di macchinari occidentali e giapponesi: nel 2023 la Cina ha acquistato macchinari per 36,6 miliardi di dollari pari al 34,4% delle vendite globali, superando di gran lunga Corea del Sud e Taiwan. Gli acquisti cinesi nel 2023 sono cresciuti del 29% rispetto all’anno precedente.

b) Macchinari per la produzione di chip

Per emanciparsi dalle forniture occidentali nel settore delle apparecchiature per la produzione di chip, la Cina sta sostenendo lo sforzo dei campioni nazionali del settore che stanno cercando di incrementare quantità e qualità delle apparecchiature prodotte.

Le principali aziende del settore sono Advanced Micro-Fabrication Equipment (AMEC), Dongfang Jingyuan Electron, China Electronics Technology Group Corporation (CETC), NAURA Technology Group e Shanghai Micro Electronics Equipment (SMEE), quest’ultima specializzata in macchine per litografia.

Fino a pochi anni fa, il sistema più avanzato di SMEE aveva una risoluzione di 90 nanometri mentre, secondo indiscrezioni, l’azienda avrebbe consegnato da poco i primi campioni del modello DUV SSA800-10W con risoluzione adatta a nodi di processo a 28 nm e avrebbe allo studio la versione SSA900 con una risoluzione a 22 nm.

Indubbiamente un salto di qualità notevole, che consentirebbe alla Cina di rendersi autonoma, per quanto riguarda i processi litografici, per la fabbricazione di tutti i chip maturi. C’è tuttavia da osservare che ASML ha commercializzato il suo primo sistema litografico a 28 nm nel 2011 e che la produzione in volumi, rispetto ai prototipi, richiederà altri anni di messa a punto. In questo settore, dunque, la Cina ha ancora un ritardo di 10÷15 anni.



c) Sistemi litografici avanzati

Le ambizioni cinesi non si limitano alle apparecchiature per la produzione di chip maturi (≥ 28 nm). Se per i chip più avanzati vengono attualmente utilizzati gli scanner litografici DUV di ASML acquistati prima degli ultimi divieti e quelli non ancora soggetti alle norme più restrittive, la Cina sta tentando di mettere a punto una tecnologia alternativa ai sistemi EUV di ASML con i quali vengono realizzati oggi i chip a 3÷5 nanometri e che in futuro consentiranno (nella versione EUV-NA) di raggiungere risoluzioni di 1÷2 nanometri.

Al centro di questo sforzo c’è ancora una volta Huawei che sta costruendo un enorme Centro di ricerca e sviluppo di apparecchiature per semiconduttori a Shanghai, focalizzato sulla costruzione di macchine per la litografia avanzata.

Il nuovo Centro si trova nel distretto di Qingpu, nella zona ovest di Shanghai, in un ampio campus che ospita anche un importante centro di sviluppo di chip e la nuova sede di HiSilicon Technologies.

L’investimento totale ammonta a 12 miliardi di yuan (1,66 miliardi di dollari). L’azienda sta assumendo centinaia di ingegneri che hanno lavorato con i principali costruttori di impianti come Applied Materials, Lam Research, KLA e ASML, facilitata in ciò, paradossalmente, dalle norme americane che hanno reso più difficile per i cittadini cinesi lavorare per aziende straniere di chip presenti in Cina. Ciò ha lasciato più talenti a disposizione di Huawei e di altre aziende locali.

Una delle tecnologie alternative sulle quali punta Huawei è quella del “Self-Aligned Pattern Quadrupleization” (SAQP) che dovrebbe consentire di produrre chip a 5 nanometri in volumi senza l’impiego degli scanner EUV ma con le macchine DUV di cui, come abbiamo visto, la Cina ha fatto ampia scorta.

La Cina ha anche seguito con grande interesse gli sforzi di Canon che ha messo a punto la tecnologia nanoimprint lithography (NIL) che non utilizza complesse sorgenti luminose e che secondo l’azienda è in grado di realizzare microchip con nodo di processo fino a 2 nanometri.

Questa tecnologia è molto più semplice ed economica della tecnologia EUV e quindi, agli occhi dei cinesi, anche più facile da replicare.

e) Boicottaggio dei sistemi hardware e software occidentali

Per stimolare la produzione interna di semiconduttori, e non solo, la Cina sta lentamente ma inesorabilmente vietando l’uso di chip e software di produzione occidentale.

In questo modo si ampliano gli spazi di mercato per i produttori locali che, oltretutto, non devono più confrontarsi con una concorrenza agguerrita.

Nel maggio 2023, la Cyberspace Administration of China (CAC), il regolatore della sicurezza informatica locale, ha vietato alle aziende cinesi che gestiscono le infrastrutture critiche (CII) del paese di utilizzare chip di Micron Technology.

Nel luglio dello stesso anno, la Cina ha annunciato che le esportazioni di gallio, germanio e diversi altri composti industriali saranno soggette a restrizioni al fine di “salvaguardare la sicurezza e gli interessi nazionali”.

La Cina è il più grande produttore mondiale dei due elementi, con oltre il 95% della produzione mondiale di gallio e il 67% della produzione di germanio.

Nel dicembre 2023, la Cina ha vietato l’uso di CPU prodotte dalle società statunitensi Intel e AMD per PC e server governativi cinesi. Un percorso analogo è stato intrapreso anche all’interno delle imprese a controllo statale. Il Paese ha invece approvato 18 processori realizzati dalle aziende cinesi Loongson e Phytium. Alle aziende statali è stato inoltre chiesto di passare all’hardware cinese entro il 2027.

La Cina sta puntando molto anche sulla tecnologia open-source RISC-V per tentare di sostituire le piattaforme x86 e Arm.

I chip RISC-V prodotti da aziende e istituti di ricerca cinesi possono ora alimentare auto a guida autonoma, modelli di intelligenza artificiale e centri di archiviazione dati e, secondo alcune recenti indiscrezioni, saranno presto utilizzati anche negli smartphone Android prodotti in Cina.

La contesa sui chip per l’Intelligenza Artificiale

Un discorso a parte meritano i chip per l’intelligenza artificiale di cui NVIDIA è indiscussa leader mondiale. Se anche i concorrenti occidentali più agguerriti come AMD e Intel non riescono a competere con l’azienda di Jensen Huang, figuriamoci le aziende cinesi che, tra l’altro, non possono accedere ai processi di fabbricazione più avanzati.

L’importanza di questi chip è fondamentale non tanto per le loro applicazioni militari dirette quanto per la capacità di realizzare sistemi di calcolo avanzato assistiti dall’intelligenza artificiale, indispensabili nella ricerca militare, per la diagnostica medica, per la ricerca nel campo della fisica, della chimica ed anche per accelerare e migliorare i processi di progettazione e produzione dei semiconduttori stessi.

È proprio per questo motivo che le vendite di GPU di NVIDIA sono state le più colpite dalle sanzioni statunitensi; per contro, la Cina ha cercato di procurarsi il maggior numero possibile di chip, prima e dopo le sanzioni. Anche facendo ricorso ai chip meno potenti, infatti, è possibile ottenere risultati accettabili purché se ne impieghino un gran numero: come risulta evidente dalle classifiche dei supercomputer che l’organizzazione TOP500.org pubblica due volte all’anno, spesso l’incremento delle prestazioni dei supercomputer dipende proprio dal maggior numero di CPU e GPU utilizzate.

Anche da questo punto di vista, dunque, le sanzioni americane potrebbero non raggiungere l’obiettivo di bloccare lo sviluppo tecnologico della Cina nel settore dei semiconduttori e dell’intelligenza artificiale, nonostante la maggior parte degli analisti ritenga che ci vorrà ancora molto tempo (almeno 10÷15 anni) prima che l’industria dei semiconduttori cinesi possa competere con le aziende occidentali nel campo dei microchip più avanzati.