L’emendamento al decreto-legge Asset proposto da esponenti della Lega vieta che i fondi pubblici vadano ad aziende italiane controllate o che collaborano con aziende di paesi non allineate con le politiche della UE. I casi LFoundry e STMicroelectronics.
Cinque senatori della Lega hanno proposto un emendamento al recente decreto-legge “Asset” che stanzia, in attesa del Piano nazionale per la Microelettronica, incentivi sotto forma di credito d’imposta per progetti di ricerca e sviluppo relativi al settore dei semiconduttori per complessivi 530 milioni di euro ai quali vanno aggiunti altri 30 milioni stanziati dal Ministero dell’Università e della Ricerca.
L’emendamento firmato dai senatori della Lega Tilde Minasi, Manfredi Potenti, Antonino Germanà, Marta Bizzotto e Gianluca Cantalamessa, propone che “… sono in ogni caso escluse dal credito di imposta di cui al comma 1, in coerenza con gli obiettivi della comunicazione della Commissione europea (COM 2022) 45 final dell’8 febbraio 2022, le imprese controllate o che collaborano con imprese controllate da entità di Paesi che non condividono i principi dell’Unione europea.”
Perché è sbagliato aiutare le aziende italiane possedute dalla Cina
Il principio ispiratore è molto semplice: i fondi stanziati dall’Italia e dall’Europa per creare una catena di fornitura autonoma che si affranchi da paesi come la Cina che tendono ad assumere posizioni dominanti in vari settori tecnologici (dal fotovoltaico all’eolico, dalle batterie alle terre rare) non possono andare alle aziende operanti in Italia di proprietà cinese o alle aziende italiane che collaborano con entità cinesi, in Italia o in Cina.
Sarebbe un controsenso rispetto all’obiettivo che si intende raggiungere, fanno notare gli esponenti della Lega.
L’European Chips Act, la legge quadro europea che consente gli aiuti di stato alle aziende nazionali dei semiconduttori in deroga alle norme comunitarie, non prevede espressamente queste ipotesi.
Al contrario, nel Chips Act americano, sono stati introdotti alcuni divieti per le aziende che ricevono contributi pubblici.
Proprio la scorsa settimana, dopo una serie di consultazioni, il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ha ufficializzato tali divieti.
La norma prevede che le aziende che ricevono i fondi pubblici del Chips Act non possano espandere, per i dieci anni successivi all’erogazione dei contributi, la produzione di materiali semiconduttori nei paesi che destano “preoccupazione” così come sarà loro vietato prendere parte ad alcuni tipi di ricerca congiunta. I paesi che destano “preoccupazione” includono attualmente Cina, Russia, Iran e Corea del Nord.
“Queste norme proteggeranno la nostra sicurezza nazionale e aiuteranno gli Stati Uniti a rimanere in vantaggio per i decenni a venire”, ha dichiarato venerdì scorso in una nota il ministro del Commercio USA Gina Raimondo.
Il caso Nexperia
Nonostante il Chips Act europeo non preveda limitazioni di questo genere, al momento nessuna entità cinese ha richiesto fondi pubblici per espandere le proprie attività ad eccezione di Nexperia, un’azienda con sede nei Paesi Bassi controllata dalla cinese Wingtech Technology, che ha chiesto al governo tedesco contributi pubblici per la sua fabbrica di Amburgo nonché di partecipare ad alcune iniziative europee nell’ambito dell’IPCEI ME/CT, programma che prevede finanziamenti per un valore complessivo di 8,3 miliardi di euro (oltre 4 miliardi per la sola Germania). La richiesta è stata respinta per iniziativa dello stesso ministro Robert Habeck responsabile del Ministero per gli affari economici e l’azione per il clima (BMWK); secondo Habeck, un’azienda con legami con la Cina non deve ricevere sussidi statali, soprattutto quando si tratta di tecnologie chiave come i semiconduttori.
I casi LFoundry e Huawei
Nel nostro paese, l’emendamento proposto dai rappresentati della Lega, se approvato, interesserà sicuramente LFoundry e le attività italiane di Huawei, ma potrebbe coinvolgere anche la multinazionale italo-francese dei semiconduttori STMicroelectronics.
Il caso di LFoundry è pacifico: nata nel 1989 su iniziativa di Texas Instruments, l’azienda marsicana è attualmente controllata al 100% dalla cinese Wuxi Xichanweixin Semiconductor per cui, secondo l’emendamento della Lega, non avrebbe diritto ad alcun contributo previsto dal Chips Act, né potrebbe partecipare a iniziative di ricerca in aree “critiche” con altre entità italiane.
Per la verità, non risulta che LFoundry abbia richiesto contributi pubblici per le sue attività produttive, e le collaborazioni in corso riguardano perlopiù attività accademiche, rivolte alla formazione di specialisti nel campo della microelettronica.
Anche l’attività di Huawei in Italia, oltre che di natura commerciale, è caratterizzata da collaborazioni con varie Università per la formazione di specialisti nel campo dei semiconduttori; esistono tuttavia attività di ricerca e sviluppo di nuovi prodotti con Università ed enti pubblici che potrebbero rientrare nella fattispecie prevista dall’emendamento della Lega. Tra le tante attività, ricordiamo la partecipazione di Huawei al Distretto di Microelettronica dell’Università di Pavia, la stessa università dove avrà sede il nuovo “Centro italiano per il design dei circuiti integrati a semiconduttore” previsto dal decreto-legge di agosto.
ST investe in Cina i contributi italiani?
Molto più controverso è il caso di STMicroelectronics, la multinazionale italo-francese che ha ricevuto negli anni, e riceverà in futuro, consistenti aiuti pubblici. Tra i più recenti, ricordiamo i contributi per la realizzazione del nuovo impianto per wafer SiC di Catania (292,5 milioni di euro) e, in Francia, sussidi per 2,9 miliardi di euro per la costruzione di una nuovo fab da 300 mm a Crolles, frutto di un accordo tra STMicroelectronics e GlobalFoundries. In passato, STMicroelectronics ha ricevuto contributi per l’espansione dei siti produttivi di Agrate (MI) e di Crolles e Tours (Francia), oltre ad altri contributi a fondo perduto e prestiti vari per numerose altre iniziative.
Per STMicroelectronics la Cina rappresenta un importantissimo mercato finale, in particolare per i dispositivi di potenza e per quelli SiC, sempre più richiesti dai produttori automobilistici cinesi.
Questo è uno dei motivi che ha spinto STMicroelectronics ad annunciare la costruzione in Cina (in joint venture con la cinese Sanan) di un impianto per la produzione di dispositivi SiC con un investimento complessivo di 3,5 miliardi di dollari.
Da più parti sono stati sollevati dubbi sulla opportunità e fors’anche sulla legittimità di questa iniziativa. Le critiche non riguardano il fatto di voler condividere con i cinesi una tecnologia avanzata: la produzione di dispositivi SiC è sì una tecnologia innovativa ma, di fatto, esistono numerose aziende in tutto il mondo, Cina compresa, in grado di operare in questo settore.
Il problema sono le sovvenzioni pubbliche previste dall’European Chips Act che ST riceverà nei prossimi anni per le sue iniziative in Europa. STMicroelectronics utilizzerà queste risorse per progetti che rientrano nei suoi piani di politica industriale e di sviluppo del business, pensando soprattutto a quella che sarà la capacità produttiva necessaria per un mercato – quello dei semiconduttori – che raddoppierà entro il 2030.
Se STMicroelectronics ha investito in Europa anziché in altre parti del mondo, è anche merito dei contributi pubblici ricevuti dalla UE.
Questi aiuti, tuttavia, hanno anche “fortificato” i bilanci dell’azienda italo-francese che ha conseguito un utile netto di quasi quattro miliardi di dollari nel 2022, cifra che è destinata ad aumentare ancora quest’anno. STMicroelectronics investirà gran parte di questi utili in nuovi impianti produttivi, con una spesa prevista per il 2023 di circa quattro miliardi di dollari.
Seguendo questo filo logico, è facile arrivare alla conclusione che le nuove capacità di investimento che ST sta per mettere in campo in Cina arrivano in parte anche dai contributi pubblici ricevuti dall’azienda in Europa.
In pratica, come temuto da qualcuno, le sovvenzioni dell’European Chips Act possono ritorcersi contro la stessa Europa, avvantaggiando quel sistema produttivo che si voleva in qualche modo emarginare.
Per questa ragione, ma anche per il fatto che l’azienda è partecipata dai governi italiano e francese con una quota del 27,5%, l’iniziativa di STMicroelectronics, alla luce anche dell’emendamento dei senatori della Lega, è destinata a diventare motivo di imbarazzo per il governo italiano, già alle prese con il tentativo di fare uscire il nostro paese dall’accordo sulla Via della Seta.
Questa inaspettata evoluzione della geopolitica dei chip che coinvolge il nostro paese non potrà non essere presa in esame dal Ministro delle imprese e del made in Italy Adolfo Urso che ha annunciato a breve la presentazione del Chips Act italiano.
Il divieto di utilizzare i fondi del Chips Act per favorire, direttamente o indirettamente, le aziende cinesi, potrebbe anche essere normato dalla Commissione europea sulla falsariga di quanto fatto negli Stati Uniti.
In questo paese, dopo l’approvazione del Chips Act e dopo un lungo confronto tra le parti, si è deciso di porre dei limiti ben precisi alle attività delle aziende che richiedono sussidi pubblici ma che continuano ad espandere le loro attività produttive e di ricerca in Cina.